voleva dimenticare, ma era impossibile.
Giorgio aveva intrapreso la carriera di croupier:
era durata solo poche settimane.
Quel lavoro non faceva per lui, non sopportava veder gente avida di denaro rovinarsi in quel modo.
Un giorno, dopo alcune proposte di affari poco leciti, confortato dal non avere una famiglia da mantenere, decise di mollare tutto. La vita, però, complice lo zampino del diavolo, non sempre premia e pur trasferendosi in un’altra città, non aveva trovato un nuovo impiego e presto la strada diventò la sua casa.
L’aria e La panchina di marmo erano gelide come la sua anima, priva di tutto, anche degli affetti più cari.Ora aveva solo un amico, Mario, chitarrista di strada, conosciuto alla stazione qualche giorno dopo la sua nuova vita da mendicante.
Giorgio lo considerava un vero maestro di vita: gli aveva insegnato a sopravvivere in modo onesto, cosa non facile in quell’ambiente avverso. Aveva provato a insegnargli anche a suonare la chitarra, ma si arrese subito, visto gli scarsi risultati ottenuti.
Terminata la sigaretta, gettò il mozzicone a terra. Si rannicchiò come un cane infreddolito in alcuni giornali e qualche pezzo di cartone per ripararsi dal freddo. Si addormentò guardando il campanile della chiesa poco distante, illuminato dalla luna. In quella notte di dicembre gli occhi di Giorgio si chiusero al mondo per sempre.
A trovare il suo corpo fu proprio Mario, l’amico di sventura; i medici provarono a rianimarlo, ma fu tutto inutile. A terra c’era ancora il mozzicone dell’ultima sigaretta, l’ultima delle tre guadagnate quel giorno, l’ultima di quella giornata, l’ultima di una vita in cui si era messo in gioco perdendo tutto, tranne la sua onestà.